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Psicoterapia nell’habitat digitale: la clinica contemporanea

Pubblicato il: 14 Novembre 2025
Psicoterapia nell’habitat digitale: la clinica contemporanea

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Pubblicato il: 14 Novembre 2025

Scritto da:

Veronica Bacchelli

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Nell’habitat digitale l’attaccamento, il cervello e le forme del disagio cambiano in profondità. Il presente articolo propone di ripensare la psicoterapia in questo contesto, rimettendo al centro il corpo, la relazione e i tempi lenti del pensiero, là dove l’algoritmo tende a cancellarli.

Il digitale non è più un oggetto tra gli altri: è l’habitat in cui nasciamo, cresciamo e ci trasformiamo. Questo ambiente riorganizza l’esperienza precoce di attaccamento, modula i circuiti neurobiologici e riconfigura le manifestazioni cliniche. Parlare di “uso disfunzionale” della tecnologia non basta: occorre leggerla come contesto nel quale ci sviluppiamo, in modi significativamente differenti rispetto anche solo a trent’anni fa.

Dal digitale‑oggetto al digitale‑habitat

Il digitale non è più uno strumento esterno che si usa o si sospende a comando: è nell’ambiente che ci circonda e che inevitabilmente ci plasma. In termini psicoanalitici, è divenuto ambiente ontogenetico: ovvero, l’ambiente nel quale nasciamo. Di conseguenza, la domanda clinica non è “quanto schermo?” ma che funzione psichica svolge questo habitat nei diversi momenti della vita e qual è il suo impatto sul nostro cervello e sulle nostre relazioni.

Technoference: l’ostacolo nelle primissime connessioni

Nei primi mesi di vita, la sintonizzazione caregiver–neonato si costruisce nei microtempi relazionali dello scambio di sguardi, del timbro della voce, della prossimità corporea e delle attese reciproche.

Con technoference si intende l’interferenza del digitale proprio in questi momenti primari, ad esempio durante l’allattamento, quando il device si introduce in questo spazio relazionale. In tale frattura, lo sguardo del neonato perde l’orientamento: può essere attratto dallo schermo oppure restare sospeso nel vuoto, senza un volto a cui affidarsi.
L’intrusione tecnologica altera la modulazione fisiologica dell’incontro, inibisce lo scambio ossitocinico e introduce una forma di deprivazione relazionale simile al neglect. Ne deriva un’interruzione e distorsione della regolazione diadica stessa, ostacolando il riconoscimento e rispecchiamento, fattori cruciali per la maturazione delle future competenze di autoregolazione e di affidamento all’Altro.

In continuità, il ricorso al dispositivo come calming on demand emerge quando adulti e bambini faticano a tollerare la frustrazione: il device tampona il disagio, riduce l’attesa e offre gratificazioni immediate. Nel tempo questo può indebolire la capacità di rinvio e autoregolazione, favorendo una saturazione dell’angoscia promossa dal device e riducendo le occasioni di sensorialità condivisa (contatto, sguardo, respiro), importanti per l’integrazione affettiva. Il digitale diventa così un “caregiver” prevedibile, una sorta di madre sempre disponibile, che fornisce scariche dopaminergiche rapide, proteggendo dalla noia e dal dolore, senza però offrire il lavoro trasformativo della relazione incarnata.

Cervello “on/off”: dal continuo al binario

L’architettura dello stimolo digitale fatta di feed intermittenti, notifiche e infinite scroll, a cui siamo costantemente esposti, seleziona una forma di attenzione corta e altamente reattiva. La ricompensa anticipatoria dopaminergica viene ingaggiata in sequenze ravvicinate, mentre i circuiti coinvolti nella riflessione, simbolizzazione e nella tolleranza dell’attesa trovano meno spazio operativo. Ne risulta un’economia binaria dell’esperienza: “tutto e subito” oppure “niente e mai”.

Questo addestramento percettivo ed emotivo si estende al mondo relazionale. Se l’attenzione si abitua a stimoli rapidi e interazioni a bassa latenza, il modo di stare con l’altro si accorcia: diminuisce la tolleranza per le attese, per le sfumature e per l’ambiguità che ogni legame porta con sé. La riparazione richiede un tempo di rielaborazione fatto di silenzi ed esitazioni: elementi che un’attenzione allenata al “subito” tende a scartare. Di conseguenza, la valutazione dell’altro si polarizza su posizioni binarie: o molto vicino o molto lontano, perché gli spazi intermedi, fatti di approssimazioni e negoziazioni, risultano faticosi da sostenere. In questo assetto, l’iper-coinvolgimento digitale può funzionare da ritiro “sicuro”: nel digitale la prossimità è controllata ed è possibile regolare la propria esposizione di modo da mantenere la prevedibilità sull’ambiente. Questo protegge dal rischio dell’imprevisto e della vergogna, ma riduce l’esercizio delle competenze relazionali lente (mentalizzazione, riparazione, regolazione condivisa), irrigidendo il campo affettivo su binari dicotomici. Il risultato è un legame che cerca intensità e controllo, ma fatica a reggere continuità, differenza e tempi lunghi.

In termini clinici questo assetto si traduce, anzitutto, in una minore tolleranza della frustrazione: cresce il bisogno di regolazioni esterne rapide e diventa più difficile sostare in stati intermedi o reggere l’ambiguità. Ne risente anche il pensiero, che perde continuità e capacità di legare gli affetti in forme simboliche. L’iperconnessione, infatti, non sostituisce la prossimità corporea né il lavoro simbolico che la presenza condivisa rende possibile.

Contesto digitale, corpo e legami

La contemporaneità è complessa e, nell’età dello sviluppo, ignorare l’habitat digitale significa perdere un pezzo decisivo del quadro. Non sorprende, dunque, considerare che tra adolescenti e giovani adulti ricorrono vissuti ansiosi nei confronti del futuro e difficoltà a prefigurare scenari plausibili; prevale il senso di vuoto e un ricorso sistematico al device per modulare la frustrazione, la tristezza e la rabbia. Come precedentemente accennato, il rischio dell’uso regolativo è che porti a un iperinvestimento che erode sonno, contatti sociali e rendimento scolastico o lavorativo. Non si tratta di “cattive abitudini”, ma di esiti prevedibili di un’ecologia che premia la risposta immediata, semplifica gli scambi e restringe gli spazi della presenza corporea condivisa, la base su cui si costruiscono regolazione emotiva, senso dell’altro e apprendimento relazionale.

In assenza di tempi lenti e co-presenza, la tolleranza all’ambiguità cala insieme alla soglia di frustrazione, mentre l’arousal resta alto. In questa prospettiva, il ritiro online offre sollievo, rinforzando il circuito evitante. Questa dinamica non riguarda solo i più giovani. Anche gli adulti risultano esposti e, spesso, delegano al digitale funzioni simboliche e regolative. Quando ciò accade, la presenza incarnata si indebolisce e la parola perde lo statuto di significante. Per questo la clinica è chiamata a diventare lo spazio di ricostruzione dei luoghi e dei ritmi dell’incontro: il posto in cui valorizzare il corpo a corpo nella stanza, modulare empaticamente i tempi di attesa e riparazione, cercando di restituire continuità narrativa all’esperienza.

Conclusione

La clinica oggi si confronta con un ambiente diventato quasi “trasparente” proprio perché pervasivo: il digitale ridisegna i legami, comprime i tempi della mente e orienta il modo in cui l’esperienza prende forma. Ignorarlo porta a letture riduttive, che scambiano per mere abitudini ciò che è l’esito di una matrice più ampia.

Il compito clinico non è demonizzare lo stimolo digitale, ma restare nella complessità e riaprire a nuove possibilità in cui rimettere il corpo al lavoro, sostenere la parola e ricucire continuità tra esperienza e significato. In questa direzione, è importante osservare come il “codice” digitale, simultaneo, poco mediato e binario, sposti lentamente le soglie del simbolico come riorganizzazione dei modi di regolare l’arousal, di tollerare l’ambiguità e di riparare le rotture.

Riconfigurare la clinica significa allora operare una traduzione continua tra corpi, parole e algoritmi; risulta necessario riportare l’Altro nella stanza, nelle famiglie, a scuola, nei luoghi di cura, perché la macchina non occupi tutto lo spazio del soggetto. In questo contesto, la psicoterapia è un atto di resistenza: va controcorrente al dominio digitale, rimette al centro il discorso del soggetto e riapre spazi mentali saturati dall’addestramento allo stimolo rapido. Il lavoro si orienta sulla tolleranza dei tempi lenti, sulle riparazioni esplicite, su ancoraggi corporei condivisi, per restituire al pensiero il margine necessario a fare bordo attorno a ciò che l’accelerazione rende istantaneo.

 

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