“Chi guarda troppo a lungo nell’abisso, scoprirà che anche l’abisso guarda dentro di lui.”
— Friedrich Nietzsche
Il mito e l’origine
La parola “narcisismo” trae origine dal mito di Narciso, un giovane di tale bellezza da innamorarsi del proprio riflesso in uno specchio d’acqua, fino a consumarsi nella contemplazione di sé. In alcune versioni del mito, si lascia morire, incapace di distogliere lo sguardo dalla propria immagine; in altre, muore di dolore per non poterla possedere, e dal sangue di quella morte sboccia un fiore: il narciso. In entrambi i casi, l’esito è lo stesso: dissoluzione del sé nella propria idealizzazione.
Questa immagine poetica e tragica racchiude in sé tutta la complessità del concetto di narcisismo: un Sé che si cerca nello sguardo dell’altro, che si idealizza e che, nel farlo, rischia di perdersi.
Una cultura narcisistica
Il narcisismo non è soltanto una diagnosi clinica, ma anche un fenomeno culturale. Christopher Lasch, nel suo celebre “La cultura del narcisismo”, sosteneva che la modernità avesse trasformato l’io in un tempio da venerare. In un mondo dove l’apparenza spesso prevale sull’autenticità e in cui l’autopromozione ha sostituito il senso comunitario. La nostra epoca, attraverso media, consumismo e retorica del successo personale, sembra incoraggiare tratti narcisistici come la ricerca continua di ammirazione, l’individualismo, il bisogno di distinzione e la fatica a costruire legami affettivi profondi.
Eppure, il narcisismo patologico non è la semplice espressione di un ego gonfiato, bensì la conseguenza di un’identità fragile che cerca di sopravvivere in un mondo che ha perso la capacità di rispecchiare con empatia.
Tra sviluppo e patologia
Ogni essere umano nasce con bisogni narcisistici: il bisogno di essere visto, ammirato, accolto come unico. Questi bisogni si soddisfano attraverso figure di attaccamento che rispecchiano il bambino e ne contengono la grandiosità, permettendogli così di interiorizzare un senso stabile di valore personale. Quando questo processo si svolge in modo armonico, il narcisismo diventa una forza vitale che sostiene l’autostima, le aspirazioni e le capacità relazionali.
Ma cosa succede quando il bambino non trova un volto in cui specchiarsi? Quando il rispecchiamento è distorto, assente o intrusivo, la crescita del Sé si interrompe, e il bisogno di riconoscimento si cristallizza in una dipendenza patologica dallo sguardo altrui.
Il narcisismo patologico nasce come una ferita evolutiva. Il Sé grandioso, privo di ancoraggi interni, diventa una corazza difensiva: chi lo indossa non si sente davvero potente, ma deve sembrare tale. Il prezzo da pagare è altissimo e doloroso: relazioni superficiali, sensibilità estrema alla critica, senso cronico di vuoto, incapacità di empatia, rabbia quando non si riceve l’ammirazione desiderata.
Il disturbo narcisistico di personalità
Il DSM-5 definisce il Disturbo Narcisistico di Personalità come un pattern pervasivo di grandiosità, bisogno di ammirazione e mancanza di empatia, che si manifesta in una varietà di contesti e ha origine nella prima età adulta. Secondo l’ICD-10, la diagnosi rientra tra i disturbi specifici di personalità, pur senza una categoria autonoma, ma ne riconosce la presenza e l’impatto clinico.
Ma la definizione diagnostica, pur utile, non cattura tutta la complessità del narcisismo. Esistono infatti forme grandiose, apertamente arroganti e manipolative, e forme vulnerabili, ritirate, ipersensibili e silenziosamente sofferenti. In entrambe, l’autostima è instabile, l’immagine di sé è scissa tra onnipotenza e indegnità, e il contatto con la realtà emotiva è spesso distorto.
Il ruolo dell’ambiente e il volto del materno
Nel determinare la traiettoria del narcisismo sano o patologico, il ruolo del caregiver primario — che chiamiamo simbolicamente “materno” — è cruciale. Un ambiente sufficientemente empatico permette al bambino di sentirsi visto nella sua unicità e contenuto nei suoi vissuti, anche nei momenti in cui si sente “troppo” o “niente”.
Quando invece il genitore è assente, invadente, freddo o troppo bisognoso, può usare il figlio come specchio dei propri desideri. Il bambino, per essere amato, impara a performare invece che a essere. Così si forma un falso Sé, brillante all’esterno ma vuoto all’interno. E sarà proprio quel vuoto che l’adulto tenterà di colmare attraverso l’ammirazione degli altri, senza riuscire mai davvero a sentirsi pieno.
Narcisismo in terapia: sfida e possibilità
Trattare il narcisismo in psicoterapia significa confrontarsi con la fragilità travestita da potenza, con la rabbia che copre la vergogna e con la solitudine mascherata da autosufficienza. Il terapeuta, in particolare in un’ottica ispirata a Kohut, è chiamato a rappresentare quella figura che, nel tempo evolutivo originario, è mancata o si è mostrata carente. È colui che rispecchia e che regge lo sguardo del paziente anche quando si fa tagliente, provocatorio, o disperatamente vuoto.
Questo rispecchiamento — empatico ma saldo — permette al paziente di riattivare la crescita delle sue parti sane, quelle che erano rimaste congelate nel tempo della ferita. Si tratta di offrire una “base sicura”, non per appoggiare la grandiosità patologica, ma per nutrire la coesione interna, integrare le parti scisse del Sé e accompagnare la persona verso la possibilità di relazioni meno difese e più autentiche.
Il terapeuta, allora, non è soltanto testimone del dolore narcisistico, ma anche agente di trasformazione, ponte tra un passato congelato e un presente possibile. In questo senso, la psicoterapia diventa non solo uno spazio di cura, ma anche di rinascita simbolica: il luogo dove il fiore di Narciso può finalmente sbocciare, non più sulle rive della solitudine, ma all’interno di una relazione viva.
Conclusione: oltre lo specchio
Il narcisismo non è una condanna definitiva, è il grido silenzioso di un Sé che, pur avvolto nella corazza della grandiosità, cerca un contatto autentico. Non è qualcosa da “correggere” come un difetto, né da abbattere con l’umiliazione; è piuttosto una sofferenza che chiede di essere riconosciuta e rispecchiata.
La cura nasce allora da uno sguardo che non sia né idolatrante né svalutante, ma semplicemente umano. È in questo spazio, tra verità e accoglienza, che il paziente può lentamente scoprire di avere un valore intrinseco, indipendente dall’approvazione esterna.
Così, il percorso terapeutico non è un invito a smettere di guardarsi, ma a imparare a vedersi davvero nello sguardo vivo dell’altro che restituisce dignità e verità. Solo allora Narciso potrà incontrare se stesso non come immagine da inseguire, ma come presenza da abitare.
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